Casa Museo “Sa domu de su ferreri”

 

La Casa Museo “Sa domu de su ferreri” rappresenta un raro esempio di architettura rurale risalente al 1904 e sorgeva in una posizione strategica rispetto alla trama viaria del paese, vicino alla piazza principale del paese. La bottega e la casa sono state costruite da Aurelio Carta e sono state ereditate dalla figlia Giovannina, sposatasi col fabbro Ausano Farris. Morti Albino e sua moglie, la casa, la bottega e la relativa attività sono rimaste al loro unico figlio Francesco, detto “Chicchinu”, morto nel 2002.

La struttura conserva quasi tutti gli elementi originali e praticamente non è stata mai modificata, a eccezione dell’aggiunta di un solaio per le granaglie che è stato costruito nel 1932. Il soffitto è a incannucciata e il tetto a doppio spiovente in tegole.

La muratura perimetrale è costruita in “làdiri”, mattoni crudi, che sono stati realizzati nello stesso cortile dell’abitazione. In origine, le murature esterne a filo strada non presentavano intonaco.

Il portale d’ingresso, del tipo a trave lignea orizzontale, presenta lateralmente dei piedritti realizzati per metà in pietra arenaria locale. Il portone in legno, di antica fattura, è protetto internamente da una tettoia a uno spiovente. Una parte del cortile era adibito a orto e sotto il forno veniva custodito il maiale, almeno sino al 1950 circa; la parte vicina alla cucina è coperta da un pergolato.

Vicino al portone d’ingresso c’era la legnaia: “sa biga ‘e sa lina”, in passato anche il letamaio,

su muntruaxu”.

Nella casa le stanze sono sette. Nella cosiddetta “domu de su strexu’e fenu” vi si conserva ancora la cestineria tradizionale. Al piano superiore troviamo il solaio in cui si conservavano i cereali, su lori, raggiungibile attraverso una ripida scala di legno;

Nella cucina c’è il pozzo, tanti altri oggetti di utilizzo quotidiano, il tavolo detto “sa mesa ‘e fai pani”, con alcuni scanni. Nella stanza da letto: un appendiabiti in legno detto “s’apicamantellu”, alcuni quadretti con immagini sacre, il rosario vicino al letto e la palma benedetta, il lavamano sorretto dal caratteristico trespolo in ferro detto “su pei de su lavamanu”, oltre ovviamente al letto, alcune sedie e un comò con sopra l’immancabile statua della Madonna.

 

La bottega, come la casa, sorgeva in posizione strategica dove era più facile avanzare con i carri e vi era un maggiore transito di contadini. La bottega del fabbro era un locale aperto da una parte, con una piccola porta che dava sulla strada, dove vi era uno spazio sufficiente per il carriaggio.

Dal laboratorio, “sa butega”, si può accedere direttamente attraverso un’altra piccola porta in legno al cortile dell’abitazione, dove troviamo la caratteristica piattaforma circolare, in lastroni di pietra, utilizzata durante le operazioni di rimessa in forma dei cerchi in ferro delle ruote dei carri; l’altrettanto caratteristica struttura utilizzata per la ferratura dei buoi, cavalli, muli e asini, “sa machina ‘e ferrai”, che consistente in una sorta di stretta gabbia rettangolare, delimitata da quattro pilastri in pietra arenaria detti “is petzus” a sostegno di una robusta intelaiatura di travi in legno a sezione circolare. All’interno della gabbia, attraverso delle fasce sottopancia assicurate alle trave superiori, gli animali venivano imbragati e immobilizzati, uno per volta, per le operazioni di ferratura.

Il locale centrale della bottega contiene gli strumenti più importanti del fabbro, disposti secondo una logica che gli permette di accedere facilmente a essi durante le fasi del processo lavorativo: la disposizione delle mazze e delle tenaglie, ordinate per forma e dimensioni, risponde a criteri di funzionalità, ma è anche oggetto di apprezzamento estetico.

All’interno della bottega troviamo ancora oggi: la fucina, l’incudine e il banco che sono fondamentali per i principali momenti dell’attività, ossia riscaldare e raffreddare bruscamente il metallo con l’acqua (tempera), martellarlo e rifinirlo. Luogo del fuoco è la forgia o fucina, ripiano di cottura di pietre squadrate. L’aria viene dal mantice, pelle di bue e a doppia camera, che veniva solitamente azionato manualmente dall’apprendista, “su scienti”, con un tirante. La vaschetta in pietra addossata alla forgia forniva l’acqua necessaria per la tempera. L’incudine era lo strumento sul quale soprattutto il fabbro imparava e svolgeva il suo mestiere. I pezzi venivano rifiniti sul banco, attrezzato di una grande morsa. Gli altri principali elementi sono rappresentati da: “su lacu ‘e s’acua” a ridosso della fucina; la morsa detta “su cabacorru”, sorretta da un grosso ceppo, vicino a un robusto tavolo di lavoro in legno; un grande trapano manuale da parete; nel cortile, la caratteristica mola circolare in pietra arenaria azionata da un pedale, “sa perda po accotzai” che serviva per affilare i vari strumenti come: vomeri e versòi di aratri, zappe, vanghe, coltelli, forbici da cucito e da potatura, e ancora realizzare e aggiustare graticole, treppiedi, spiedi, etc..

La bottega Farris aveva come marchio di riconoscimento la stella, che il fabbro imprimeva sugli attrezzi da lui forgiati.

Il laboratorio, soprattutto, mantiene immutate le sue caratteristiche originarie, dove l’unico elemento di modernità è rappresentato dalla corrente elettrica utilizzata unicamente per alimentare una lampadina.

 

Va detto inoltre che dei sei laboratori di fabbro esistenti nel paese, attivi sino alla seconda metà del ‘900, questo dei Farris è l’unico esempio, con tali caratteristiche, ancora esistente.